L’adozione è un percorso che ha bisogno del sostegno di tutti per permettere che la storia di disillusione,
rifiuto e sofferenza possa trasformarsi in un incontro e diventare famiglia. L’adozione è sia per i genitori che
per il bambino un momento di forte cambiamento in cui, entrambe le parti, devono attivarsi per ricostruire
l’equilibrio relazionale ed affettivo del nuovo nucleo familiare. Costruire un percorso di consapevolezza
diventa fondamentale per acquisire strumenti concreti di gestione dei vissuti emozionali e delle reazioni
istintive comportamentali. E’ quindi fondamentale sviluppare consapevolezza delle proprie dinamiche
interne, delle proprie caratteristiche comportamentali nella gestione delle difficoltà relazionali, del proprio
sistema relazionale di coppia. La letteratura ad oggi relativa all’adozione nazionale e internazionale, mostra
come i figli adottivi presentano più difficoltà rispetto ai loro coetanei non adottivi in diverse aree come
quella della regolazione emotiva, nell’area relazionale, nell’adattamento sociale, così come
nell’apprendimento proprio perché le relazioni sociali precoci, fondamentali per un sano sviluppo di queste
arre, sono state traumatiche e/o portano con sé vissuti di abbandono e profonda angoscia. Le relazioni
significative precoci svolgono un ruolo fondamentale per quanto riguarda lo sviluppo delle abilità di
autoregolazione comportamentale e emotiva (Riva Crugnola, Gazzotti, Spinelli, Ierardi, Caprin e Albizzati,
2013), anche perché in grado di «determinare» la quota di stress a cui viene sottoposto il bambino, con
tutto ciò che ne consegue (Gunnar e Loman, 2011). La matrice relazionale appresa nelle prime fasi dello
sviluppo tende a riproporsi ad ogni passaggio evolutivo, ad ogni cambiamento. Nella vita di un bambino che
ha già vissuto la separazione in modo traumatico, anche l’adozione è un cambiamento e rappresenta ad un
tempo una perdita ed una acquisizione, una separazione e un attaccamento. Proprio in questo passaggio
evolutivo, che mira a dare una famiglia ad un bambino che ne è privo, possono allora rinforzarsi
meccanismi di difesa quali la scissione, la negazione e l’identificazione con l’aggressore, a cui il bambino ha
già dovuto ricorrere per tenere lontano il proprio dolore. In tal caso, se da un lato assistiamo al reiterarsi di
distorte modalità relazionali acquisite precedentemente per il mantenimento di una pseudo-sicurezza di
base, dall’altra possiamo comprendere che il regressivo ripetersi di comportamenti normalmente
attribuibili a fasi precedenti dello sviluppo rappresenta il tentativo del bambino di ricevere finalmente una
risposta diversa, adeguatamente risanante, che chiede un adulto in grado di ripristinare quella fiducia di
base che è stata precocemente lesa. Proprio nel contesto relazionale precoce trovano la loro origine quelle
carenze e distorsioni che in seguito può manifestare il bambino adottato. Pur tenendo presente la
variabilità delle singole storie (età dell’abbandono, qualità delle esperienze nella famiglia d’origine e
nell’istituto di provenienza, eventuali affidamenti o adozioni fallite, etc.), riportiamo le più significative per
comprendere l’importante funzione di accudimento e sostegno che deve necessariamente assumere la
famiglia adottiva per assolvere il suo compito riparativo e trasformativo.
“Nei bambini più piccoli spesso è presente il comportamento dell’autodondolamento che riflette la
mancanza di un abbraccio contenitivo, che è fisico, ma anche e soprattutto affettivo e mentale. La tendenza
del bambino ad autococcolarsi per lenire i propri penosi stati d’animo può sfociare – soprattutto quando
l’abbandono è avvenuto nei primi momenti di vita – in forme più violente e drammatiche (sbattere contro il
lettino per darsi un confine, o contro un muro per distruggere i sentimenti interni di disintegrazione). Più
tardi l’ipereccitabilità motoria, che si presenta frequentemente, sta ad indicare ancora una volta il non
essere stati contenuti e pensati, la difficoltà a stare dentro confini non sperimentati e a rispettare regole a
suo tempo non introiettate. Anche la pseudoautonomia (l’essere “omini in miniatura”, il “far da sé”), che
troviamo quasi di norma nei bambini adottati in età prescolare o scolare, testimonia il bisogno di negare
l’assenza dell’Altro e di tenere distante la propria sofferenza: non si può aver bisogno dell’altro, altrimenti si
dovrebbe ammettere quel dolore senza nome che fa troppa paura; non si può scoperchiare la propria
pentola, altrimenti si rischierebbe di rimanere ancora una volta soli e terrorizzati. L’incapacità di piangere
per una contusione o una ferita fa pure parte dello stesso aspetto. Si dice che tutti i bambini sono fatti di
gomma, ma questi lo sono di più: hanno ridotto o perso la capacità di percepire il proprio dolore da cui
progressivamente si sono anestetizzati; e non hanno la piena percezione dei pericoli, perché non
conoscono il senso del limite che nessuno, o quasi, ha dato loro. La mancanza del limite la ritroviamo in
quei bambini che girano come forsennati in una piazza o dentro una scuola, sopraffatti dalla paura della
propria paura e da stimoli eccessivi che non sono in grado di metabolizzare. La ritroviamo anche in quei
bambini che, appena si trovano all’aperto, sembrano entrare in confusione, in sovreccitazione e, non
avendo avuto un corretto attaccamento, seguono chiunque si ponga sul loro cammino” (De Bono, 2007,
p.179-180). Anche le difficoltà di attenzione e di apprendimento che spesso insorgono in età scolare sono
da ricondursi alla prima relazione madre-bambino, all’interno della quale possiamo rintracciare i precursori
del desiderio di conoscenza. Nella storia pregressa del bambino adottato il cammino dalla dipendenza
all’indipendenza “non si è probabilmente realizzato in modo adeguato e integrato; la difficile elaborazione
della perdita dell’oggetto d’amore materno ostacola la possibilità di nuovi investimenti affettivi e
intellettivi, riattivando nell’inconscio antiche angosce persecutorie che dilagano e occupano in modo
massiccio la mente. Viene così impedita la formazione di uno spazio interno in cui introiettare la
conoscenza e l’apprendimento. Separarsi significa avere dentro di sé un oggetto buono, la madre, da cui
allontanarsi senza il timore di perderlo definitivamente. Solo su questa ‘base sicura’ l’impulso innato alla
conoscenza (o istinto epistemofilico) riesce ad attivarsi permettendo la conquista del nuovo. Il bambino è in
grado di stare con la mamma e di affrontare l’esperienza scolastica quando sa che esiste il ritorno e il
ritrovarsi insieme. Creare nuovi legami fra ciò che si sa e ciò che si deve imparare, fra il passato e il
presente, fonda l’attività del pensiero, di cui l’apprendimento costituisce una parte. Nel bambino adottivo
la memoria del passato suscita l’angoscia dell’antica perdita che, se non viene accettata ed elaborata
dentro di sé e nella relazione parentale, tende a paralizzare la mente non predisponendola al cambiamento
verso la conoscenza. Infatti sono spesso presenti disturbi della memoria, che segnalano l’impossibilità di
rievocare un passato troppo doloroso per poter essere contenuto dentro di sé” (Farri Monaco e Peila
Castellani, 1994, p.198-199). Un bambino precocemente segnato dall’abbandono non è stato
accompagnato nei suoi primi passi di esplorazione del mondo, sia interno che esterno; non ha ricevuto il
sostegno di una figura accudente capace di dare un nome ai suoi stati emotivi, che sono rimasti sconosciuti
dentro di lui, incontrollabili e minacciosi. Imparare significa aprirsi con curiosità al nuovo e all’ignoto,
significa sapersi avventurare verso il mare aperto con la fiducia di poter attingere alle proprie capacità e
con la sicurezza di poter sempre ritrovare un porto. E se imparare significa soprattutto saper reggere la
frustrazione del proprio limite (di non sapere), il bambino adottato ha ancora bisogno di un porto sicuro
dove possa trovare il calore e la protezione di un adulto in grado di contenere quegli stati d’animo che in
passato lo hanno sommerso e reso fragile ad ogni successiva frustrazione.
Partendo da questa base teorica nasce l’idea di creare uno spazio stabile e sicuro di condivisione per i
bambini adottivi della famiglie della Val Susa che hanno costituito il gruppo “innesti e radici”, al fine di
aiutarli attraverso il gioco, il corpo e, quindi, il movimento e la respirazione, a percepirsi capaci di auto-
regolare le emozioni che arrivano, definendo i confini tra il mondo esterno e interno, alimentando sia un
senso pieno di stabilità e sicurezza sia un maggior livello di autostima.
OPERATORI
• Sara Vit psicologa socia fondatrice Associazione Progetto Salute
• Federico Rossetto Giaccherino chinesiologo socio ordinario Associazione Progetto Salute
• Letizia Borello laureanda Infermieristica Pediatrica socia ordinaria Associazione Progetto Salute
AREA DI INTERVENTO
Via Circonvallazione, 63 Almese
DESTINATARI DIRETTI E INDIRETTI
Bambini
Famiglie
OBIETTIVI GENERALI
• Creare un’occasione di incontro tra bambini
• Verbalizzare le emozioni
• Offrire degli strumenti che aiutino la gestione delle emozioni
• Incrementare la dimensione sociale e relazionale
OBIETTIVI SPECIFICI
• Sviluppare la consapevolezza di se’ attraverso la percezione del proprio corpo
• Attivare e orientare l’ attenzione
• Sviluppare la creatività e la spontaneità
• Utilizzare il linguaggio del corpo e del movimento per comunicare
• Acquisire la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse
• Conoscere se stessi e gli altri
• Sviluppare l’intelligenza emotiva e l’empatia
• Costruire una cornice di senso degli stati d’animo
MODALITA’ E ATTIVITA’
Gli incontri si terranno nelle seguenti date dalle 18.00 alle 19.30
- Venerdì 19 Novembre
- Venerdì 10 Dicembre
- Venerdì 21 Gennaio
- Venerdì 18 Febbraio
- Venerdì 18 Marzo
- Venerdì 8 Aprile
- Venerdì 13 Maggio
- Venerdì 17 Giugno
Ogni incontro verrà suddiviso in fasi:
• Momento al tappeto tutti insieme in cui si condivide come stiamo
• Momento di gioco (tiro alla fune, giochi con la musica giochi di ruolo…)
• Momento di silenzio, immaginazione e respirazione
• Momento del saluto